Le tre anfore di Antinoe qui esposte sono esempi di Late Roman Amphora 7, anfore prodotte in Egitto tra V e VIII sec. d.C. e adibite al trasporto e alla conservazione del vino. Plasmate con argilla alluvionale, presentano
corpo di forma conica, terminante a punta, uno stretto collo cilindrico e una
breve spalla sulla quale sono impostate due anse verticali.
Fatta eccezione per le anse,
modellate a mano, le anfore sono state prodotte al tornio, mediante la
lavorazione separata dei diversi elementi strutturali. Le parti così ottenute
sono state poi unite e i punti di congiunzione risultano tuttora in parte
visibili. Le costolature orizzontali, che ricoprono tutta la superficie esterna,
oltre che avere una funzione estetica, permettevano il fissaggio delle anfore
per mezzo di corde, facilitandone il trasporto.
L'interno è completamente ricoperto
da materiale impermeabilizzante di colore nero, in parte colato all’esterno
della bocca. Entrata in uso in età greco-romana, la prassi di rivestire con
resina o pece l’interno delle anfore, dal piede fino all’orlo, aveva come
principale obiettivo l’occlusione dei pori della terracotta, così da evitare
l’ossidazione del vino contenuto. L’utilizzo della resina, inoltre, modificava
il gusto del vino, che per contatto con le sostanze immesse ne prendeva in
parte il sapore.
La chiusura dell’anfora avveniva con l’inserimento di fibre vegetali nel collo e con l'occlusione della bocca tramite tappo di gesso o di argilla cruda. I tappi in gesso presentano impresse a stampo immagini animali, vegetali, monogrammi o croci. Quelli in argilla, mescolata a paglia, erano modellati
a mano sopra la bocca dell’anfora, così da assumere una forma emisferica o
conica; i nomi o i
sigilli stampigliati sui tappi indicavano i produttori del vino o i destinatari
delle anfore.
Alla base del collo si trova talvolta un foro, che veniva praticato dopo la cottura dell’anfora, così da permettere la fuoriuscita
dei gas di fermentazione che altrimenti, compressi all’interno dell’anfora, avrebbero
potuto provocare l’esplosione del recipiente.
Sula spalla di un’anfora registrata nell’elenco dei reperti l’11.11.1966 – il che fa
presumere che sia stata rinvenuta nella zona della chiesa di San Colluto – è presente una scritta, databile forse al VI secolo, che contiene un’imprecazione. Vi si legge ὁ φθονῶν λακήσῃ, cioè «L’invidioso crepi!».
Dato che l’invidia era ritenuta causa di malocchio, si cercava di scongiurarla con varie forme di imprecazioni, non
ultima la morte stessa dell’invidioso, in modo che non procurasse rovina
all’invidiato. Questo scongiuro e altri analoghi si trovano spesso nelle fondamenta
di edifici di epoca bizantina, allo scopo di allontanare il malocchio.
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